FRANCESCO II DI BORBONE
“Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto”. Cosi egli iniziava il suo testamento, nato a Napoli il 16 gennaio 1836 da Ferdinando II e Maria Cristina di Savoia, sali al trono dopo la morte del padre, avvenuta il 22 maggio 1859, e poco dopo aver sposato la bellissima e temeraria duchessa di Baviera Maria Sofia, sorella di Sissi e cognata dell'imperatore Francesco.
Persona molto tenera, rispettosa di tutti e soprattutto della moglie. Buono di carattere ma molto intelligente parlava correttamente le lingue tant'è che egli era chiamato a tradurre le varie lettere della sua famiglia.
Borbone del ramo di Napoli di quinta generazione, Francesco è a tutti gli effetti un autentico napoletano e quindi italiano a dispetto di personaggi francesi, profondamente radicato in quella terra ed animato da un intimo attaccamento alla sua gente. Questo ci dice che il vero italiano in quel tempo non era sicuramente il savoiardo, ma Francesco! A soli 23 anni, dunque, diventa re. Consapevole della criticità della situazione politica, chiama subito a capo del Governo Carlo Filangieri, valido generale ed abile uomo politico vicino alla famiglia reale e con simpatie verso la Francia, purtroppo!.
Il nuovo Primo Ministro si preoccupa subito di uscire dall'isolamento internazionale, voluto da Ferdinando II, anche perché prevede che il regno avrà a breve bisogno di alleati forti per salvaguardare la sua stessa sopravvivenza. Riallaccia dunque relazioni diplomatiche con Francia e Gran Bretagna, oltre che con il Regno di Sardegna (alleato della Francia), ma quando presenta al re la proposta di alleanza con la Francia, Francesco II la rigetta decisamente, riluttante all'idea di abbandonare il vecchio alleato austriaco che per due volte, in passato, aveva salvato il regno, oltre alla stretta parentela che lo lega alla famiglia imperiale. E' questo l'atto che sancirà la catastrofe.
In particolare, non volle piegarsi ad alcun compromesso ed, allorquando gli fu proposto di espandere i domini del Regno delle Due Sicilie mediante la spartizione (insieme con il Piemonte) dei territori dello Stato Pontificio, egli, che era per le cose chiare e giuste, nonché alieno dal compiere torti e sopraffazioni, rispose deciso e risoluto: «Chella è robba d’ ‘o Papa!» In ragione di questo, pur volendolo, Francesco II di Borbone non avrebbe mai adottato gli stessi metodi politici e le medesime strategie militari che Vittorio Emanuele II di Savoia, ed ancora di più Cavour, stavano usando proprio contro le Due Sicilie.
E, mentre quest’ultimo poté giovarsi dell’operato di un primo ministro scaltro e cinico, quale fu Camillo Benso conte di Cavour, Francesco si trovò ad essere attorniato da un nutrito nugolo di traditori, i quali altro non fecero se non accelerarne la sconfitta.
Questa fu la sua vibrante denuncia: «Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; ché mai ha durato lungamente l’opera della inequità, né sono eterne le usurpazioni … ho guardato con isdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano soltanto la mia persona … I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio Consiglio; ma nella sincerità del mio cuore io non potea credere nel tradimento … i promotori della guerra civile, i traditori al proprio paese ricevono pensioni, che paga il pacifico contribuente. L’anarchia è da per tutto»; questa la sua accorata confessione: «Per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia Corona … ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento … Ho creduto di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico … non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra»; questa la sua dolorosa testimonianza: «Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l’Amministrazione è un caos; la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni son piene di sospetti: in luogo della libertà lo stato d’assedio regna nelle provincie, ed un Generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi che non s’inchinino alla bandiera di Sardegna» e la sua drammatica profezia: «Voi sognate l’Italia e Vittorio Emanuele, ma purtroppo sarete infelici. … I napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di aver fatto sempre il mio dovere, ma però ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere»., il che dimostra che non era affatto uno sprovveduto e che il termine "franceschiell0" era del tutto inappropriato detto se non dal padre.
Fu un Re che aveva abbracciato un modello di regalità totalmente diverso da quello usualmente inteso. Grazie alla sua profonda religiosità, Francesco II concepì la regalità non come un’egoistica gestione del potere, ma come un servizio verso i propri sudditi, che egli continuò ad amare, ben dopo la caduta del regno e la perdita del trono, sino alla fine dei suoi giorni. E, rivolgendosi loro, fu orgoglioso di puntualizzare che: «Ho combattuto non già per me, ma per l’onore del nome che portiamo … io sono napolitano; nato in mezzo a voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel Regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre sono pure le mie. … Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità». Rivelò così l’orgoglio della napoletanità sua e della sua Famiglia, che per 126 anni aveva governato pacificamente il Sud d’Italia, perseguendo solo e sempre l’autentico benessere dei propri sudditi, possiamo dire ultimo re e presidente che abbia amato il sud.
Di Francesco II la storia, purtroppo, non se n’è quasi mai occupato, se non in modo apparentemente distratto, e, quando lo ha fatto, ha descritto la figura di un uomo scialbo; l’iconografia lo presenta come un giovane dall’aspetto impacciato, le spalle strette, gli occhi tristi, l’espressione tra il timido ed il corrucciato; insomma, il ritratto perfetto dell’anti-eroe. Ed anche nella storiografia più recente, il re–soldato, che combatte sugli spalti di Gaeta, vi appare quasi trascinato, più che dalla sua convinzione personale, dall’entusiasmo incosciente e, talvolta, imprudente, della giovane moglie Maria Sofia di Baviera, riconosciuta “eroina di Gaeta”.
Restano poco noti, invece, il suo ricchissimo epistolario, il suo diario privato, le memorie di chi visse accanto a lui gli ultimi istanti della sua vita. Da essi emerge una figura di re il cui profilo morale, umano, intellettuale e cristiano è altissimo e rigoroso: un ritratto assolutamente stridente con quello ufficiale consegnatoci dalla storia che, persino nel nomignolo con cui lo identifica, “Francischiello”, ha voluto imprimere nella memoria collettiva l’immagine del perdente, del non – Re, rappresentandone una regalità in negativo, in cui non trovano spazio concetti come “potere” e “trionfo” e non c’è posto neanche per la competizione, la “competitività” richiesta dai modelli considerati vincenti.
Lasciando Napoli, Francesco II non portò nulla con sé. Il 12 settembre, appena una settimana dopo la sua partenza verso Gaeta (il Regno delle Due Sicilie era, dunque, ancora formalmente uno Stato legittimo riconosciuto dalle potenze europee), i suoi beni venivano dichiarati da Garibaldi “beni nazionali”. Lo si voleva allontanare il più possibile da Napoli, perché la sua sola prossimità al Regno era sufficiente a tenere alto il morale di chi combatteva per l’indipendenza della patria. Francesco non accettò: non poteva consentire alcuna strumentalizzazione della sua persona facendone ricadere su di lui la responsabilità dei massacri, che l’esercito piemontese stava attuando nel tentativo di piegare la resistenza dei napoletani. Perché di “Napolitani” si trattava - come sottolineava con forza il Re - e non di “briganti” ed “assassini”, come invece li dipingeva la propaganda; napoletani come lui, e, come lui, “disgraziati che difendono in una lotta ineguale l’indipendenza della loro patria ed i diritti della loro legittima dinastia”. Di quei “briganti”, ad ogni modo, se tale era la loro identità, lui, il Re, si reputava onorato di esserne il primo. Ed avendo, d’altra parte, perduto un trono, che gli importava di perdere le ricchezze?. “Sarò povero come tanti altri che sono migliori di me: ed ai miei occhi il decoro ha pregio assai maggiore della ricchezza” : queste le parole con le quali respinse il “consiglio” di Napoleone III di allontanarsi da Roma. Non riebbe più i suoi beni, che furono distribuiti, in barba a statuti e “proteste”, ai “martiri” dell’Unità d’Italia (Paese che, a quanto pare, continua ancora oggi a produrre “martiri”, se c’è chi pretende - in modo assai poco regale, in verità- dallo Stato, dunque dai suoi cittadini, il risarcimento dei danni derivati dall’esilio cui furono sottoposti, dopo il 1948, gli ex Re d’Italia ed i loro discendenti maschi, ossia i continuatori, effettivi e potenziali, di una dinastia che aveva fondato le sue fortune, oltre che la Nazione, principalmente sul sangue degli avversari, cui aveva strappato il Trono, e delle popolazioni che in quel Trono si riconoscevano,senza minimamente preoccuparsi del loro destino).
lI 21 aprile del 1870 lasciò la Città Eterna mentre ancora c’erano episodi di “brigantaggio” nel suo ex regno, “ora comincia il vero esilio” commentò nel suo diario; si trasferì a Parigi e poi in varie località europee, dove condusse una vita molto ritirata; era malato di diabete e morì, all’età di 58 anni, il 27 dicembre del 1894, ad Arco di Trento, cittadina che faceva ancora parte dell’impero asburgico, dove si era recato per le cure termali. Muore “In un albergo delle Alpi nel cuor dell’inverno all’ultimo confine d’Italia, quasi da tutti abbandonato, da tutti ignorato, mentre i suoi nemici stanno nelle gloriose sue capitali di Napoli e Palermo…e vi danno quegli esempi di una nuova morale…..”[3] . Solo allora gli abitanti del posto seppero che il cortese “signor Fabiani”, che ogni giorno assisteva alla Messa, recitava il Rosario, si metteva compostamente in fila con i contadini del luogo per baciare le reliquie, era il deposto Re meridionale; gli furono tributate esequie solenni e tuttora esiste in quella località una via a lui intitolata.
Al momento del trapasso, avvenuto dopo breve malattia, gli erano accanto la moglie Maria Sofia di Wittelsbach che lo aveva raggiunto nell’imminenza del Natale, il fratello Alfonso, Conte di Caserta, l’Arciduchessa Maria e gli Arciduchi Alberto e Ranieri. Nel 1926 per sua espressa volontà di Maria Sofia, moglie fedele di Francesco II, le sue spoglie furono poste su di un treno alla volta dell’Italia. A Trento, il treno si fermò e fu caricato anche il sacello del marito Francesco II. Poi il convoglio proseguì il suo mesto viaggio fino a Roma, dove le spoglie dei reali furono tumulate, insieme a quelle dell’unica figlioletta, nella chiesa di S. Spirito dei Napoletani.
Da qui, infine, furono traslate di nuovo il 10 aprile 1984 e trasportate finalmente a Napoli, nella Chiesa di S. Chiara, il Pantheon dei Borbone.
(testi liberamente tratti dal web ed rivisitati con altre studi)