Mongiana: Il polo industriale
Le real Ferriere di Mongiana sono state il primo polo industriale del sud, forse ad oggi l'unico che ebbe fortuna, finchè qualcuno invidioso e poco patriottico (o patriottico per il suo Piemente!) decise che il Regno delle Due Sicilie (l'attuale Sud!) non doveva più "progedire". Industria di alta precisione per l'epoca, si costruivano dalle armi, ai bisturi, alle carpenterie metalliche. La sua storia ebbe inizione intorno agli anni 1768-1771 e ci rifacciamo ad un prezioso articolo della studiosa Mariolina Spadaro, di seguito riassunto, per sottolineare la sua importanza. "Le ferriere sorgevano nell’area del territorio calabrese che è oggi la più emarginata e depressa: comuni come Nardodipace – che detiene il triste primato di comune più povero d’Italia; Mongiana – pressoché spopolata dall’emigrazione; più in generale tutta l’area dell’entroterra vibonese e la zona posta a confine tra le province di Catanzaro e Reggio Calabria (altopiano delle serre) è oggi nota soprattutto per essere, in una delle regioni più povere d’Italia, l’area certamente più sottosviluppata.
Eppure, Mongiana, Stilo, Ferdinandea costituivano il “triangolo industriale” della penisola italiana, prima che l’unificazione del Paese spostasse tale baricentro verso le città del Nord. Parlare di “polo siderurgico” in Calabria può forse apparire presuntuoso e persino irriverente, oltre che irreale, tanto più se si considera la parte di territorio presa in considerazione che è oggi tra le più povere ed emarginate della penisola italiana.
Non è stato sempre così ed i documenti, fortunatamente sopravvissuti al tentativo, perseguito pervicacemente, di cancellare ogni traccia di memoria storica, ce ne danno viva testimonianza gli sviluppi futuri.
Un avviso del 25 giugno 1874 (ultima “voce” delle Ferriere calabresi) conservato tra i documenti dell’Archivio di Catanzaro, annunciava la vendita all’asta dello Stabilimento di Mongiana con i beni pertinenziali, in unico lotto, col sistema del pubblico incanto ed aggiudicazione al maggiore offerente. Il prezzo base dell’asta era quello di Lire 524.667, 21 centesimi e le offerte in aumento non potevano essere inferiori a Lire 500.
E' con Carlo III di Borbone, che si avvia un deciso processo di ristrutturazione ed ammodernamento delle Ferriere calabresi, che saranno al centro dell’attenzione della politica carolina: le esigenze di potenziamento dell’esercito daranno particolare impulso alla produzione della ghisa e dei manufatti in ferro per l’industria statale militare, che le Ferriere sono in grado di fornire.
Carlo III manda in Calabria i migliori mineralogisti sassoni ed ungheresi per l’aggiornamento delle maestranze locali e l’ammodernamento dei processi di produzione. Ma sarà specialmente Ferdinando IV ad attuare con determinazione il programma paterno. La riorganizzazione delle ferriere calabresi è ritenuto compito urgente ed inderogabile del governo: la produzione delle ghise ed i sistemi di fusione nel regno sono basati ancora sul cd. “metodo catalano” che comporta forti sprechi di carbone vegetale; il disboscamento intensivo costringe a spostare continuamente le ferriere (cd. ferriere itineranti), con grave disagio (man mano che i boschi sono distrutti, le strutture vengono trasferite verso le zone alberate) e pericoli di dissesto idrogeologico, che già all’epoca non viene affatto sottovalutato.
Nell’intento di evitare danni al territorio, il sovrano emana nel 1773 un decreto “salvaboschi” con il quale, nel disporre il trasferimento delle vecchie ferriere di Stilo verso la valle dell’ Allaro, decreterà la nascita delle nuove Ferriere di Mongiana, a carattere stabile e collegate a quelle di Stilo secondo un progetto di continuità di ciclo produttivo (oggi diremmo di “filiera”): a Stilo si attua la fase di prima fusione, a Mongiana il processo di affinazione ed elaborazione dei manufatti. Dopo un periodo di stasi, è sotto il regno di Ferdinando II che si realizza pienamente un efficiente modernizzazione degli stabilimenti.
Nel 1833 Ferdinando II visita le Ferriere calabresi (vi tornerà anche nel 1852) ed inaugura, in tale occasione la “Ferdinandea”, il terzo punto strategico, dopo Stilo e Mongiana, del complesso siderurgico calabrese, “un interessante connubio tra casino di caccia e ferriera, cittadella in cui vivono in simbiosi altiforni, caserme, stalle, chiesa ed appartamenti reali”. La fonderia ha un impianto razionale: la fasi lavorative sono distribuite a vari livelli; è inoltre suscettibile di ampliamento (nel 1860, quando ne sarà decretata la chiusura stava per essere ultimata la costruzione di un secondo forno cilindrico). La prima campagna fusiva è del 1833-34, dura cinque mesi e produce 5.000 cantaia all’anno.
La qualità del ferro impiegato nella fabbricazione delle armi ha davvero pochi rivali, ma resta, invece, ancora scarsa l’efficienza della rete di distribuzione. Nel 1839 la Giunta dei Generali ottiene dal Filangieri, Ministro della Guerra, uno stanziamento di 60.000 ducati da investire nella costruzione di strade, nuove ferriere di dolcificazione, sviluppo ed ammodernamento delle miniere. Nello stesso tempo, vengono inviati in Francia dei tecnici come “agenti segreti” per carpire i segreti dei sistemi in uso all’estero.
Le informazioni ricavate sono interessanti, ma non lasciano del tutto soddisfatto il tenente colonnello Niola, che nel 1839 dirige a Mongiana il lavoro di ben 742 operai: egli stesso, perciò, “perfeziona” i suggerimenti avuti e riesce ad avere un prodotto soddisfacente. Si scopre anche, grazie alle osservazioni fatte in Francia, che il fattore determinante della purezza del ferro mongianese è il carbone di faggio, esente da residui inquinanti. Possedere vaste estensioni di boschi di faggio è, per ora, il grosso vantaggio della ferriera calabrese.
Tutto il complesso siderurgico calabrese, dislocato in una vasta zona del territorio e con diversi punti “strategici” da tenere sotto controllo, ha un’organizzazione abbastanza semplice e funzionale, affidata, fino al 1840, a cinque ufficiali dirigenti (rispettivamente preposti alla Dirigenza, al Dettaglio, ai Lavori, alla Fabbrica d’Armi, alle Miniere e scelti in base alla competenza del singolo, indipendentemente dal grado militare rivestito). L’Ufficiale Direttore comanda sia i civili che i militari, è responsabile della gestione, della contabilità, dello stato giuridico-amministrativo di ogni militare e operaio e dipende, a sua volta, da una delle Direzioni d’Artiglieria e dal Comando dell’Arma in Calabria; l’Ufficiale al Dettaglio (“economo”) cura i rifornimenti (legnami, carboni, viveri e materiali di prima necessità), spedisce i manufatti ai vari depositi di smistamento e vendita, comanda carbonari e mulattieri; l’Ufficiale ai Lavori sorveglia i processi fusivi, guida il lavoro dei fonditori, ai quali dà consigli tecnici, è responsabile della qualità dei ferri e dei manufatti; l’Ufficiale alle Armi ha l’incarico di smistare le armi ai vari corpi militari e di provvedere sulle richieste di lastre per fucile inoltrate dalle manifatture di Poggioreale e Torre; l’Ufficiale alle Miniere (un “geologo”) cura il lavoro di scavo ed estrazione, segue le ricerche di nuovi filoni, ordina l’apertura di nuove gallerie e la chiusura di quelle esaurite, sorveglia le fortificazioni, comanda le squadre dei minatori.
Agli inizi degli anni ‘40, a fianco di costoro compare la figura dell’Ingegnere Costruttore: Mongiana si avvarrà di Domenico Fortunato Savino, sconosciuto alle cronache ma personaggio chiave della storia edilizia e tecnica della ferriera. “Sarà lui a curare i restauri dei vecchi immobili, a redigere in nuovi progetti, a concludere i contratti d’appalto; è il progettista della Fabbrica d’Armi, della nuova caserma, della fonderia, delle strade, del cimitero, delle nuove officine, di ponti e canali. E’ il realizzatore dei carrelli degli altiforni mossi da una macchina a vapore che utilizza a recupero i gas in uscita, una tecnica che prenderà piede nell’industria siderurgica molto tempo dopo. Le sua innegabili capacità e la sua inventiva lo porteranno a migliorare i sistemi di produzione, a convertirli, ad ideare soluzioni e meccanismi inediti; è l’uomo dalle mille risorse che modifica macchine difettose e ne corregge il funzionamento”
Nel 1846 Savino ottiene via libera per introdurre a Mongiana i più moderni metodi di affinazione, installa un nuovo laminatoio acquistato in Inghilterra, che egli stesso perfeziona in maniera originale, consentendo allo stabilimento di diventare completamente autosufficiente: da quel momento Mongiana si costruirà tutto l’occorrente. La nuova fabbrica d’Armi è interamente progettata e costruita sul posto: neanche una lima sarà mai più importata.
Il 30 agosto 1860, provenienti da Monteleone, “i signori Palù e colonnello Massimino” con una colonna di 1.370 uomini, si presentano al maggiore Giuseppe del Bono, comandante del distaccamento di Artiglieria a Mongiana, nonché Direttore dello stabilimento, per prenderne possesso. Due giorni prima, all’arrivo di Garibaldi a Pizzo, molti artiglieri avevano deciso di abbandonare la Mongiana, demoralizzati dallo sventolìo della bandiera piemontese: erano rimasti nello stabilimento appena 25 soldati e pochi ufficiali, oltre al De Bono. Tuttavia, non si arrendono subito all’intimazione di Massimino e dichiareranno di non poter sottoscrivere l’atto formale di adesione al nuovo governo, poiché legati dal giuramento ad un Re ancora in carica; ma una trentina di uomini non possono, evidentemente, affrontarne 1370 e quindi sono costretti a consegnare lo stabilimento ai piemontesi. Ferdinandea cessa di funzionare immediatamente, poco tempo prima dell’inaugurazione del secondo altoforno all’inglese di Mongiana. I loro nomi vengono, naturalmente, mutati in “Cavour” e “Garibaldi”. Quando si chiamavano “San Francesco” e “San Ferdinando” producevano in coppia una media di 13.000 cantaja di ghisa all’anno; divenuti “unitari” vanno a scartamento ridotto: nel 1860 la loro produzione è già dimezzata; nel 1863 l’intero complesso mongianese sforna soltanto 5.000 quintali.
L’annessione porta ai meridionali un forte aggravio del carico fiscale; se nel 1863 le tasse sono aumentate già del 40%, nel 1865 raggiungono l’87% in più rispetto al 1860. All’industria vengono a mancare drammaticamente i capitali, mentre le commesse non verranno mai. Nel decennio 1860-70 lo Stato commetterà all’industria siderurgica meridionale solo il 5-7% del fabbisogno militare e non più del 6% di quello ferroviario. Delle 600 locomotive previste per le linee del Sud, solo 1/6 toccherà a Pietrarsa; neppure una rotaia verrà più prodotta nei laminatoi napoletani. Lo Stato unitario privilegia subito, spudoratamente, la componente piemontese-ligure: l’Ansaldo che prima del 1860 contava la metà dei dipendenti di Pietrarsa, con l’Unità li raddoppia mentre, contemporaneamente, si dimezzano quelli del meridione; un meridione che verrà, da allora in poi, considerato soltanto degno di vocazione agricola e dove sembrerà innaturale lo sviluppo industriale.
Si dirà che l’industria siderurgica meridionale sfornava manufatti di scarsa qualità, che le maestranze erano poco istruite: si tratta di pretesti accampati in malafede per giustificare il dirottamento delle commesse al Nord e che troveranno clamorose smentite. I cantieri di Castellammare di Stabia varano in tre anni la pirofregata Messina, al cantiere S. Rocco di Livorno ne occorreranno quattro per la gemella “Conte Verde”; in tre anni i cantieri stabiesi varano la prima monocalibra del mondo, la “Duilio”, all’Arsenale di La Spezia non ne basteranno quattro per la gemella “Dandolo”. Con legge 21 agosto 1862 n. 793 la Mongiana viene inclusa tra i beni demaniali da alienare; undici anni dopo, con legge 23 giugno 1873 n°1435 (pubblicata su GU n.183 del 4-7-1873) verrà sancita definitivamente la vendita dello stabilimento.
A nulla valgono le ripetute suppliche al governo della comunità mongianese che fa un ultimo disperato tentativo con una delibera del consiglio Comunale del 28 novembre 1870, con cui viene chiesta la ripresa dei lavori per rimettere in funzione lo stabilimento, dando conto delle ragioni che la giustificano. E’ un documento molto bello, dai toni accorati, ma dignitosi e pieni di orgoglio per un passato da non dimenticare. Il linguaggio è decisamente non burocratico, anzi appassionato ed è l’intera comunità che chiede allo Stato di non essere abbandonata e di poter trovare “un mezzo di sussistenza a tanti operai di tutti i mestieri i quali con le rispettive famiglie vennero costretti, attesa la mancanza di lavoro, a provar quanto è cosa dura morir per fame” : un disperato appello che, purtroppo, cadrà nel vuoto. Probabilmente è anche l’ultima possibilità, che il Governo non saprà cogliere, di riconciliazione con quanti sono stati defraudati dei loro diritti di cittadini.
Purtroppo, non solo il governo non si farà minimamente turbare da queste petizioni (altre ne seguiranno il 23 ed il 27 aprile 1872, ma ormai i giochi sono fatti); nessuna richiesta dei mongianesi verrà accolta e nessuna commessa per l’esecuzione di alcun lavoro arriverà mai più allo stabilimento. Tutto è già stato deciso: Mongiana deve morire.
Non fu solo mongiana a morire ma tutta l'economia del Sud che divenne tale dopo l'annessione al Piemonte. Oggi un grande progetto voluto dall'amministrazione comunale a riportato alla luce quello che resta delle fonderie. E' stato restaurata la fabbrica d'armi ed oggi sorge un ben organizzato museo che invitiamo a visitarlo in modo virtuale ma anche dal vivo.